Parthenope - Un’avventura inevitabile
Le opinioni non contano nulla. L’attualità non conta nulla, domani sarà inattuale. Questa è un’opinione (non competente) su un film.
La Grande Bellezza (2013) si apriva con una frase di Louis-Ferdinand Céline:
“Viaggiare è proprio utile. Fa lavorare l’immaginazione […]”
Mi sono chiesto se basterebbe prendere in prestito solo questa frase per provare a spiegare tutto l’immaginario di Paolo Sorrentino. Viaggiare anche stando fermi.
«Direttamente da Versailles! Ma non è un bel regalo? Così, quando dorme, può viaggiare, andare…»
Se lasciamo fuori dal discorso “l’autobiografico” È stata la mano di Dio (2021), Paolo Sorrentino non aveva mai realizzato finora un lungometraggio con protagonisti giovani.
Non so se il motivo è dovuto al pudore o alla paura di avvicinarsi al racconto di una fascia d’età lontana dalla sua o alle sue difficoltà nel relazionarsi con attori sotto i trent’anni.
Per sua stessa ammissione, sono sempre stati gli adulti il suo universo di osservazione anche a causa della predilezione nel trattare malinconia e nostalgia, due stati d’animo apparentemente antitetici con l’età giovane. La vita, e la sua indole, l’hanno costretto a confrontarsi quasi esclusivamente con gli adulti e ad essere un perdurante spettatore del suo passato:
Da bambino ero quasi condannato a osservare, perché di persone della mia età con le quali interagire non ce n’erano poi molte. Stavo con i miei genitori e con i loro amici.
Paolo Sorrentino, intervista a Vanity Fair, 2020
In realtà, uno dei temi spesso presenti nei suoi film e nei suoi libri è proprio quello della giovinezza (o il ricordo malinconico di questa), così come quello del rapporto tra l’essere umano e il Tempo che passa. Ricordo ancora il titolo provvisorio di quello che poi sarebbe diventato Youth-La Giovinezza (2015); il titolo era Il futuro.
La giovinezza allora è uno stato della mente.
E credo sia stato proprio questo uno dei moventi che ha portato alla creazione di Parthenope.
Ho fatto ora questo film perché mi sembrava fosse per me l'età giusta per guardarsi indietro, ma senza i rimpianti e le nostalgie.
Paolo Sorrentino, intervista Rolling Stones, 2024
Il viaggio epico di Parthenope Di Sangro
Il titolo provvisorio scelto per questo film era L’apparato umano, una citazione al titolo del romanzo scritto da Jep Gambardella ne La Grande Bellezza.
Qui trovate le prime voci proprio riguardo al film (che poi sarebbe stato Parthenope):
Il film, infatti, viene così presentato ufficialmente:
È la vita di Parthenope, che si chiama come la sua città, ma non è né una sirena, né un mito. Dal 1950, quando nasce, fino a oggi. Dentro di lei, tutto il lunghissimo repertorio dell’esistenza: la spensieratezza e il suo svenimento, la bellezza classica e il suo cambiamento inesorabile, gli amori inutili e quelli impossibili, i flirt stantii e le vertigini dei colpi di fulmine, i baci nelle notti di Capri, i lampi di felicità e i dolori persistenti, i padri veri e quelli inventati, la fine delle cose, i nuovi inizi. Gli altri, vissuti, osservati, amati, uomini e donne, le loro derive malinconiche, gli occhi un po’ avviliti, le impazienze, la perdita della speranza di poter ridere ancora una volta per un uomo distinto che inciampa e cade in una via del centro. Sempre in compagnia dello scorrere del tempo, questo fidanzato fedelissimo. E di Napoli, che ammalia, incanta, urla, ride e poi sa farti male.
La scelta di questo titolo, e se non bastasse la presentazione ufficiale della trama del film, toglie subito il dubbio e porta ad ammettere l’errore superficiale di alcuni nel considerare la protagonista come una metafora della città stessa o addirittura come la trasposizione simbolica della figura mitologica della sirena Partenope (di cui solo per una bizzarra casualità porta lo stesso nome, ma con il vezzo anticonformista di una h in più).
Tutti i personaggi dei film (e dei libri) di Paolo Sorrentino hanno qualcosa fuori dal comune, di non ordinario. Concedono l’illusione di assistere ad una vita avventurosa. Quanto c’è di ordinario in una bambina che nasce in acqua e che il suo padrino (non casualmente ispirato ad Achille Lauro) battezza col nome della sirena Partenope? Poco. Siamo noi i disgraziati a non aver assistito ad un parto del genere nella vita reale. Per fortuna c’è Paolo Sorrentino.
Quanto c’è di simbolico? Forse proprio nulla, ma è molto comodo pensarlo.
Quanto c’è di epico, poetico e romanzesco? Rispondetevi da soli.
Libertà. Prima che il film prenda il via, ce lo dichiara Stefania Sandrelli, quando ancora vediamo lo schermo bianco (e un’altra frase di Céline):
«’'Hai gli occhi spenti’, mi disse l’attrice. Ma la passione per la libertà era rimasta accesa. Perché è enorme la vita, ché ci si perde dappertutto».
Parthenope non è nemmeno un film su Napoli, o almeno non soltanto su Napoli in senso stretto. Questo l’ho avvertito dal primo momento. È innanzitutto il racconto di come l’intensità dei sentimenti vissuti durante la giovinezza possa anche sbiadire con l’arrivo dell’età adulta e allora subentra la gestione del ricordo.
Lo accetta, disilluso, il padre di Parthenope a tavola in una delle scene iniziali: «Da giovani tutto è meraviglioso. Da grandi tutto sbiadisce».
Si può ancora vivere con lo stupore una volta raggiunta l’età adulta? Si può ancora provare una forte emozione davanti alla novità o si è già fatto esperienza di tutto il necessario?
Sacro è quello che non dimenticheremo mai della nostra biografia. Questo film nasce così. Per me, Parthenope è, prima di tutto, un film sul sacro. Quello che una donna, in settantatré anni di vita, non ha potuto dimenticare: il mare di Napoli e i genitori, il primo candido amore alla luce del sole e quello sordido e indicibile, l’estate perfetta di Capri e la sua spensieratezza, l’alba salata, la notte profumata, il mattino fermo; gli incontri fugaci, stravaganti, decisivi; la scoperta, da ragazzi, dell’erotismo, della seduzione e della vertigine della libertà […] la vita che accade e l’inesorabile scorrere del tempo […] È il procedere del tempo. L’ambizioso tema di questo film. Quello dello scorrere della vita che contiene l’euforia e la delusione. L’amore e la sua fine. La fine della malinconia e l’inizio del desiderio […] l’unico sentimento che ci tiene in vita fino all’ultimo: la capacità di meravigliarci.
Paolo Sorrentino
Gli episodi che scorrono sullo schermo andrebbero visti con gli occhi di Parthenope che si affaccia alla sua memoria in un Tempo indefinito. Questa, secondo me, è una possibile “strategia” per viversi il film senza cadere nella trappola della fama di “film senza trama”. Non a caso il film parte dalla fine, con Parthenope, ormai in pensione, di ritorno a Capri, il luogo che ha cambiato la sua esistenza.
Noi, insieme a lei, siamo immersi in questo vortice di ricordi, provando a non perderci nelle alterazioni sentimentali generate dalla sua memoria, nel tentativo di recuperare il senso delle cose.
Quelli che vediamo sono i “momenti decisivi” della giovinezza ai trent’anni di Parthenope, i nodi centrali dai quali lei parte e torna indietro (forse lo fa da tutta una vita, ma noi non lo sappiamo); fino ad arrivare alla conclusione (cioè il momento in cui effettivamente entriamo in contatto con lei, a 73 anni), quando ha rimesso insieme i pezzi per non avere rimpianti e per continuare a stupirsi.
È la primavera del 1968, Celeste Dalla Porta risale dall’acqua e non si capisce più niente. Entra in scena e abbiamo l’ordine di seguirla. È un’irruzione degna nella storia a cui stiamo per assistere:
Diciottenne disinibita, curiosa -«una donna ha il dovere morale di essere curiosa, altrimenti soccombe» come dirà l’attrice Flora Malva (Isabella Ferrari), più avanti nel film - e sfacciata. Confida in queste battute iniziali a Sandrino (Dario Aita), che è ancora «troppo giovane per acchiappare tutte le sfumature» e in seguito al professor Marotta (Silvio Orlando), durante l’esame di Antropologia, che le «piace tutto», pur ammettendo con candore «di non sapere niente»:
Per tutto il film non fa altro che contemplare tutto quello che la circonda (e viene contemplata e desiderata), ma da un preciso momento in poi sceglie di abbandonarsi alla vita con libertà assoluta. Una libertà che molti critici cinematografici hanno confuso con la passività.
Come spesso accade ai personaggi scritti da Sorrentino, c’è una condizione di fondo privilegiata e un momento di fortuna, un’epifania. La fortuna di Parthenope è sicuramente la sua bellezza.
La prima epifania di Parthenope, invece, un altro dei suoi tanti privilegi nella storia è l’incontro a Capri, casuale, con il suo scrittore preferito, John Cheever (Gary Oldman) - di cui ne scoprirà l’identità soltanto in un secondo momento:
«Lei può prendersi tutto senza nemmeno chiedere […] Non ci crede? Ci provi. La bellezza è come la guerra: spalanca le porte.»
Da questo momento, Parthenope comincerà a provare piacere per un’altra forma della libertà: la seduzione. Si guarda allo specchio e comincia a capire. Parthenope può spalancare le porte, prendersi tutto:
Ma la vita le servirà il conto immediatamente, perché la vita è sottrazione per Paolo Sorrentino.
La perfetta estate di Capri, da ragazzi, avvolta nella spensieratezza. E l'agguato della fine. Le giovinezze hanno questo in comune: la brevità.
Paolo Sorrentino a Cannes
Raimondo (anche in questo caso la scelta del nome da parte della famiglia è bizzarra, perché rimanda a Raimondo Di Sangro), il fratello della protagonista, viene subito presentato dal padre come un ragazzo fragile, perché «vede tutto, sa tutto», perché (come dirà sua sorella) non è riuscito «a distinguere l’irrilevante con il decisivo». Ciò è causa di un tormento invadente -forse dovuto anche all’impossibilità di esternare i sentimenti incestuosi verso la sorella- che lo porterà al suicido ai Giardini di Augusto.
Ironicamente, fa due prove generali del gesto (prima, nel mare di Napoli, sotto casa, e poi nella piscina dell’hotel a Capri); entrambe le volte sotto gli occhi di Parthenope, che sembra già prevedere l’esito che verrà. Sono i preliminari della disperazione, avvisaglie di morte:
«Quando sai tutto muori presto e solo. Fai conoscenza con l’indicibile», dirà il cardinale Tesorone (Peppe Lanzetta), “recitando” e seducendo a distanza, consapevolmente, Parthenope. Raimondo è morto presto perché sapeva tutto. C’è sempre un individuo triste e solo nel profondo di noi stessi e frequentarlo il meno possibile è una delle vie per fuggire dalla morte.
Questa è la prima deviazione decisiva della vita di Parthenope; un evento che porterà la protagonista a chiedersi cosa sarebbe successo se avesse imboccato un’altra strada (cioè se non avesse trascorso con Sandrino quello che restava dell’alba).
La brevità della giovinezza. La vita dolce e la vita crudele. Infatti questa scena è di una dolcezza crudele:
E a lei, la sua stessa famiglia, a più riprese, addosserà la responsabilità di questa morte.
La scelta di sostenere l’esame di laurea con la tesi sul suicidio prima, e quella di interrompere gli studi per assecondare un’illusione poi, sono i segnali dello sbandamento e del dolore di una famiglia che non c’è più. I critici cinematografici, non pervenuti.
«Come stanno i tuoi genitori? Quando è morto tuo fratello sono morti pure loro»
«E io mi sono perduta»
Parthenope accetta il rischio di risultare insincera con sé stessa agli occhi degli altri. È uno degli effetti collaterali della libertà. Sandrino asserisce che «non ha mai saputo amare nessuno». Forse è solo l’impossibilità di gestire la libertà altrui.
Tenterà di uscire da sé stessa fino a restare delusa da sé stessa, perché reca con sé un dolore indicibile. La spontaneità fa commettere degli errori e anche gli errori sono un’altra forma di dolore.
[…] Ma alla fine si ritorna al momento in cui hai cominciato a capire e a provare.
Paolo Sorrentino, Gli Aspetti Irrilevanti
Gli inciampi nella curiosità di Parthenope corrispondono ad un errore. Sono gli amori mancati.
Per fortuna esiste un amore inossidabile: quello per i padri. E quello dei padri verso i figli. È l’unico amore che ci sembra invincibile ed è l’amore che cerchiamo più spesso di imitare per tutta la vita. Ecco perché i padri ci sembrano degli eroi, oltre le debolezze. Non a caso Parthenope, per un attimo, intravede il futuro dietro la vita del suo professore.
«Professore, io ho capito una cosa»
«Tutti abbiamo capito, almeno una cosa»
«Io vorrei tentare la carriera universitaria. Sento che è la mia strada»
«Ne è sicura? Guardi che si diventa come me»
«E non sarebbe stupendo?»
Ferito a morte e Parthenope, due storie senza tempo sommerse nel mare
Ferito a morte è un romanzo del 1961 di Raffaele La Capria, scrittore napoletano scomparso nel 2022 fa all’età di 99 anni.
Lessi il romanzo per la prima volta nei miei incoscienti 16 anni e mi sconvolse per la novità del suo stile. Afferrai poco del suo vero significato, ma da allora lo rileggo almeno una volta l’anno e mi sembra di sentirlo sempre più vivo, ogni volta di più.
Non ho le capacità per parlare di questo romanzo, un capolavoro assoluto della letteratura italiana, e soprattutto trovo inutile e pericoloso impelagarmi in una sua spiegazione (vista anche la sua straordinaria complessità), perché non aggiungerei nulla di sensato.
Basti pensare che Sandro Veronesi consiglia perfino una tecnica di lettura per comprenderne meglio il senso: ricominciarlo subito una volta terminato o di rileggere almeno il primo capitolo. È un libro che va risistemato dopo più letture, se si vuole avere sotto controllo un ordine temporale.
Ecco, durante la mia prima visione di Parthenope in sala, ho avuto la sensazione che questo film fosse molto vicino a Ferito a morte - so bene che è un’associazione mentale piuttosto semplice e forse inesatta.
Ritornato a casa frastornato, ho scoperto con enorme sorpresa (e con un ritardo che non mi perdono) che Paolo Sorrentino e Raffaele La Capria avevano in mente una sceneggiatura a quattro mani per mettere il romanzo su schermo! -un’idea abbandonata presto vista la complessità narrativa del testo.
Da settimane non smetto di fare passaparola e consigliarne la lettura. Recentemente, in un intervento, Paolo Sorrentino ha comunque liquidato la questione così: “non leggo Ferito a morte da trent’anni”.
È difficile spiegare sommariamente Ferito a morte, e vale lo stesso per Parthenope, ma i punti di contatto tra quel romanzo e questo film credo siano numerosi. Entrambe le opere sono avventure umane.
Il romanzo è un flusso di coscienza difficile da afferrare e seguire e il film, a sua volta, è un viavai nella memoria di Parthenope, alla ricerca dei momenti decisivi vissuti (e che come spesso accade in molte biografie, coincidono con l’alta intensità della giovinezza).
Comincerei con il Tempo e con il mare di Napoli, i due fluidi protagonisti, fin dalla prima pagina e fin dai primi minuti del film.
Raffaele La Capria viveva a Palazzo Donn’Anna, presente nel romanzo col nome di Palazzo Medina: un pezzo di tufo con le radici nel mare, all’inizio della collina di Posillipo, molto simile alla residenza in cui nasce e cresce Parthenope.
Raffaele La Capria scrisse che il suo libro nacque dal fondo del mare”. Il mare di Napoli è il liquido che avvolge le due storie, il luogo delle prime volte, dove il corpo si abbandona per evadere o per morire. L’immensità liquida senza tempo che tanta solitudine provoca a Paolo Sorrentino, “perché è un mare a ridosso dei palazzi”. Parthenope, però, ha anche un’altra fortuna, quella di vivere un certo tipo di mare che non esiste più, lo stesso mare che ha vissuto Raffaele La Capria:
«Se la giornata era bella, al risveglio aprivo felice la finestra e mi buttavo direttamente in acqua, sei metri più giù[…] Dentro il mare acquistavo una natura diversa, ero un pesce dentro l’elemento marino, cambiavo le posizioni del corpo. In sostanza, perdevo la natura umana e ne acquistavo un’altra […] L’eternità delle onde mi fa apparire l’altra eternità come possibile».
Raffaele La Capria in un’intervista
Uno dei temi di tutto il libro è l’incontro amoroso del protagonista, Massimo De Luca, con Carla Boursier. Un incontro rovinato dall’eiaculazione precoce per troppo amore e che diverrà la Grande Occasione Mancata.
Così come Parthenope, la storia è idealmente spaccata in due: c’è un prima della partenza di Massimo per Roma; e c’è il dopo, gli ultimi tre capitoli, che raccontano i suoi ritorni a Napoli.
È la rappresentazione della vita: così come si presenta piena di vitalità nella giovinezza e poi i ricordi, il ragionamento su quello che si è stati.
C’è un pezzo lampante del romanzo che descrive bene anche il fondo filosofico di Parthenope:
“[…] tieniti quello che ti spetta, ad ognuno il suo, solo il modo è diverso, fanne un mistero se vuoi ma non un dramma, vivi se ti va, e se ti va di lasciarti morire, lasciati morire.” (p.107)
Riprendo, a questo proposito, un estratto del commento di Geno Pampaloni al romanzo:
[…] la vita si spiega solo parzialmente, e con una fatica tanto inevitabile quanto inutile; si vive, si ricorda, ci si arrovella intorno, se ne recupera il senso a brandelli, a soprassalti, in genere quando è troppo tardi; ma non è mai troppo tardi se possiamo riviverne la presenza cogliendone a tratti il significato intero, sepolto in mezzo alla farragine della cronaca dei nostri atti; significato che è l’intensità stessa del vivere, poesia. Dramma sarebbe qualche cosa di concluso, di circoscritto; mistero è tale anche per la sua durata, per la sua carica inesauribile di romanzo
L’intensità della nostra vita, quanto scegliamo di dilatarla (non a caso il film dura oltre le 2 ore) è data dalla poesia con la quale scegliamo di viverla. La sua leggerezza, dalla nostra scelta di non confondere l’irrilevante con il decisivo.
Ferito a morte e Parthenope condividono le esperienze sensuali, dolorose, sconnesse, che sono proprie della giovinezza.
Gli amori mancati, la voglia di godere e il bisogno di trovare un posto nel mondo, il richiamo alla conoscenza (l’antropologia per Parthenope, lo vocazione intellettuale per Massimo De Luca e l’emigrazione a Roma) e, sullo sfondo, la bellezza del mare immutabile, di una città amata e odiata dagli stessi protagonisti. Città alla quale si ritorna sempre.
Massimo De Luca è ferito a morte dalla città, ma lo è soprattutto dal Tempo che passa; deve ancora accettare il dolore di questa inevitabile ferita del destino di tutti gli esseri umani.
[…] L’implacabile, irrevocabile tempo, dal trasfigurarsi delle illusioni in disinganni, dall’ombra lunga, del tempo che lascia sempre meno margine di luce, meno spazio di fantasia, meno verità da vivere nell’orgasmo e nella speranza.
Una speranza che ci comunicano gli occhi della settantatreenne Parthenope, in contemplazione della sua città in festa per lo Scudetto del Napoli. E di ritorno a Capri, il luogo della sua ultima estate felice:
Questo è un film universale, che solo a Napoli poteva essere pensato. In pochi altri luoghi del mondo si può passare dal mare sconfinato alla Grande Fusione in un basso senza essere giudicati. Ma non è un film napoletano, perché tutti vi si possono riconoscere. Ecco perché si può restare delusi da questo film: perché non racconta nulla di nuovo, non aggiunge nulla a quello che crediamo di conoscere. Noi stessi.
L’amore per provare a sopravvivere è stato un fallimento. O forse non è così.
Dopotutto: cosa importa se questo amore è servito a farci sentire liberi? A regalarci un’illusione funzionante. Cioè, a vivere.
BONUS
«Marotta è molto meno misterioso di quel che vuole far credere. Tene sulo ‘nu figlio problematico»
Forza Napoli <3